Sembra che superare un lutto sia qualcosa da fare seguendo le istruzioni di un manuale… È molto comune, per chi sta soffrendo a causa di una perdita, sentirsi dire che “è meglio non pensarci” e di “andare avanti“. Che si tratti di una malattia invalidante, della morte di una persona cara, della perdita del lavoro o della fine di una relazione, il consiglio tende ad essere sempre lo stesso: dopo essere stati tristi per un po’… si deve andare avanti con la vita! Se una persona non è in grado di farlo può sentirsi dire che sta assumendo un atteggiamento sbagliato, che sta peggiorando le cose e che in questo modo non si permette di stare meglio.

Ci sono molte idee diverse su quale sia il modo migliore di affrontare una perdita: dai rituali religiosi all’individuazione delle cinque fasi del dolore alle nuove definizioni psichiatriche sul lutto “normale” e “patologico”. La verità è che ognuno ha il suo proprio modo di piangere una perdita ed i suoi tempi e ritmi per farlo.

Un amico può perdere un genitore e possono passare molti anni prima che egli sia di nuovo se stesso; un altro può piangere la perdita di un genitore e poi  recuperare il suo normale stato d’animo in pochi mesi. Un matrimonio durato molti anni può terminare e nonostante ciò ci si può sentire pronti a ricominciare mentre per la fine di una relazione durata appena un anno possono essere necessari mesi e mesi di solitudine prima di riprendersi. Non esistono due persone che “piangano” allo stesso modo ed ogni perdita è diversa. Non c’è modo di sapere in anticipo quale forma assumerà il proprio lutto: il processo emotivo del lutto segue una propria linea temporale che non può essere prevista con esattezza, è un processo legato alle caratteristiche di personalità di quell’individuo, al tipo di lutto, al momento di vita in cui avviene il lutto, alle condizioni sociali e ambientali di quel momento ecc.

Sforzarsi di non pensare a chi o cosa si è perso”, “cercare di sentirsi meglio” sono strategie che non fanno altro che spostare da un’altra parte la sofferenza: ad esempio non si può pensare alla persona cara che non c’è più ma poi ci si ritrova a piangere improvvisamente davanti ad un cartellone della pubblicità. Oppure alcune persone, dopo la fine di una relazione, iniziano immediatamente a frequentare altri potenziali partner per poi ritrovarsi a fare dei confronti sfavorevoli che li portano inevitabilmente a rifiutare la loro compagnia, compagnia che in un altro momento sarebbe stata adeguata, piacevole ed opportuna.

I sentimenti inespressi o soffocati non svaniscono mai nel nulla. Cercare di “andare avanti” prima di essere realmente pronti non fa che aumentare le oggettive difficoltà di riprendersi adeguatamente. Oltre a doversi occupare del “lavoro del lutto” si finisce con l’avere a che fare anche con i propri giudizi negativi relativi al modo di reagire ad esso (“non riesco a riprendermi”, “non sono più capace di sorridere”, “non dovrei stare così“): questa situazione finisce con il complicare lutto e con l’aggiungere sensi di colpa e recriminazioni ad un processo già difficile di per sé.

La tristezza, la rabbia, il risentimento si possono superare dopo uno o dopo mille giorni: l’intervallo di tempo non è rilevante né prestabilito. I sentimenti hanno a che fare con l’essere umano, fanno parte delle persone e rappresentano il lavoro psichico attraverso il quale passa la perdita di qualcosa di importante.

Non importa se non piace ciò che si sente o se si pensa che ciò che si sente non sia la cosa giusta da sentire: quella sensazione comunque esiste e cercare di ignorarla o di scacciarla via non è una soluzione efficace né serve realmente ad alleviare il dolore. Rende solo più difficile riconoscere e comprendere le emozioni e le sensazioni che albergano dentro di sé.

L’unico modo che permette in realtà di accelerare il processo è accettare il fatto che il lutto è difficile per tutti e contemporaneamente è un processo diverso da persona a persona. Consigli e indicazioni su “come soffrire” e definizioni di “lutto sano” o “normale” finiscono col rappresentare un intralcio per quello che è soprattutto un processo personale e privato, che si svilupperà a prescindere dalle più disparate convinzioni sul modo giusto di affrontarlo.

Così, quando ci si sente dire che non si sta affrontando il lutto nel modo giusto, è sempre utile ricordare che il nostro apparato psichico sta facendo il meglio che può. Quanto più si è in grado di lasciare sviluppare il proprio decorso e quanto meno si permette alle aspettative culturali, ambientali o personali di interferire, tanto più veloce e autentico sarà il lavoro che permetterà, un giorno, di poter riprendere la propria vita e andare avanti.

Quindi è inutile rivolgersi ad un professionista della salute mentale? No, anzi. In questi casi si parla talvolta di reazione depressiva o di depressione reattiva ed alcune volte l’intervento di uno psicologo è molto utile: nel caso di un lutto,di una separazione, di una perdita, per alcune persone può essere molto importante riservarsi un luogo, un appuntamento per potersi confrontare con il dolore di quel particolare momento. Non è necessaria una psicoterapia, a meno che il lutto non abbia esacerbato o messo a nudo una situazione psicopatologica preesistente: quello che il più delle volte può essere utile è un percorso di supporto in cui un professionista, meglio se uno psicologo psicoterapeuta esperto, “accompagni” la persona attraverso quel difficile (e profondamente “umano”) momento della sua vita.

Liberamente tratto da: https://www.psychologytoday.com/blog/contemporary-psychoanalysis-in-action/201504/why-moving-can-keep-you-stuck