Perché la meditazione non può sostituirsi alla psicoterapia

Riporto un articolo della dottoressa Rande Brown, davvero interessante, su meditazione, mindfulness e psicoterapia.

Nel suo libro <<Mixing Minds: The Power of Relationship in Psychoanalysis and Buddhism (2010)>> Pilar Jennings osserva che “è possibile avere una ricca e profonda vita spirituale – in grado di restituire ogni sorta di benefici e ricompense di tipo spirituale – e contemporaneamente mantenere inalterati i propri schemi e conflitti psicologici”. Senza dubbio la meditazione, la mindfulness, sono uno strumento utile ma nulla può sostituirsi alla capacità di cura di una psicoterapia con uno psicoterapeuta ben preparato e addestrato.

Negli ultimi anni c’è stata un’esplosione di interesse per la mindfulness, una attitudine mentale non giudicante del qui e ora raggiunta attraverso pratiche di meditazione. Pilar Jennings si sofferma su un fenomeno – il cd. bypass spirituale – che può aversi quando queste tecniche vengono usate per curare problemi psicologici, finendo così per evitarli invece che risolverli. La mindfulness aumenta la capacità di vivere nel momento presente e può portare a profonde intuizioni sulla natura della realtà: si tratta di strumenti utilissimi per assicurarsi una vita consapevole e ben vissuta. Ma è bene tenere sempre presente che queste pratiche non sono progettate per curare la mente.

Un’insegnante americana di Zen di recente ha confidato all’autrice dell’articolo che quando le persone vanno da lei e iniziano a parlarle della loro ansia depressione, spesso dice loro che dovrebbero consultare uno psicoterapeuta. Anche lei è arrivata a comprendere che la psicoterapia (la talking cure, la terapia della parola), in particolare la psicoterapia psicoanalitica, sia più adeguata ed efficace della meditazione per affrontare i problemi emotivi poiché è in grado di identificare e modificare schemi psicologici e risolvere i sintomi che questi generano.

Il pericolo del “bypass spirituale”

La dottoressa Brown racconta di essersi avvicinata alla filosofia buddista sin da adolescente, credendo di trovare nella meditazione buddhista la chiave per dissolvere magicamente l’ansia che la tormentava sin dall’infanzia. Dal momento che ha scelto di privilegiare il buddhismo rispetto alla scienza occidentale, ovviamente non ha pensato di rivolgersi al campo della psicologia per risolvere i suoi problemi.

Appena diplomata si trasferisce in Giappone per studiare la meditazione buddista con uno stimato maestro Zen. Nonostante la rigida disciplina, il freddo pavimento della sala di meditazione e la severità del maestro, si sentiva finalmente matura, pronta a trascendere le vicissitudini del mondo terreno. Tuttavia, divenne presto evidente che stava diventando sempre più ansiosa e depressa: iniziano a comparire spaventose visioni durante la meditazione, facendola sentire fisicamente indebolita e disconnessa dal proprio corpo.

Va quindi a parlare con il maestro per raccontargli quello che le stava accadendo. Questi la interrompe a metà frase urlandole contro: “Illusioni! I tuoi sentimenti e le tue visioni non sono altro che illusioni. Dimenticale, torna al tuo posto e concentrati sulla meditazione. Siediti e basta!!!!

E così fece. Tornò al suo posto ignorando i sentimenti della bambina dentro di lei, una bambina terrorizzata che a quel punto si ritrovava completamente sola, una parte di sé che il maestro aveva appena annientato.

La dottoressa Brown continua così a meditare per diversi anni sotto la guida di una serie di insegnanti buddisti giapponesi e tibetani. Diventa abile nella meditazione, nel concentrarsi sul qui e ora, nel praticare la mindfulness. Fino a quando un giorno, verso i cinquant’anni, camminando lungo una strada nel Greenwich Village, è vittima di un vero e proprio attacco di panico. Terrorizzata chiama una sua amica, buddista ma anche psicoanalista, per chiederle cosa pensasse che avrebbe dovuto fare.

“Devi assolutamente parlare con qualcuno”, disse.

Ed è così che la dottoressa Brown giunge sul lettino di uno psicoanalista.

Il valore delle parole in psicoterapia

Queste le parole della dottoressa Brown:

<<Tutto quello che il mio analista mi chiese di fare era presentarmi e parlare. E mentre iniziavo a parlare, il mio corpo emotivo sembrava svegliarsi e trovare la sua voce. E… aveva molto da dire. Così io continuavo a parlare. E il mio analista continuava ad ascoltare. 

Un giorno, mentre stavo chiacchierando su qualcosa che mi era accaduto quando ero bambina, il mio analista ha osservato, “Mi sembra triste per questo.” Ho iniziato a protestare, ma poi mi sono fermata. L’aveva sentita. La tristezza alla base della mia fragile allegria. E poi, forse per la prima volta, l’ho sentita anche io. E ho iniziato a piangere.

Questa crepa nel mio “rivestimento” ci portò verso profondi conflitti emotivi che erano rimasti intrappolati nel mio inconscio per anni. Quando iniziammo ad esplorarli, cominciai gradualmente a sentirmi meglio e i miei sintomi di ansia che duravano da una vita – come le mie esagerate reazioni di spavento e la nausea cronica – iniziarono a scomparire.

La terapia è stata in grado di risolvere i miei problemi, non la meditazione.

Col tempo mi sono resa conto che nessuno dei miei “maestri di meditazione” aveva mai veramente ascoltato quello che avevo da dire. Quando praticavo la mindfulness, fondamentalmente ero sola. Ero da sola. In terapia no.>>

E questo sembra aver fatto la differenza.

Tradotto e liberamente adattato dall’originale: When mindfulness is not enaugh. 
L’autrice: Rande Gail Brown è psicoanalista e scrittrice. Fa parte del consiglio della William Alanson White Psychoanalytic Society e scrive su buddismo e psicoanalisi. Ha uno studio privato nel West Village di Manhattan.