Le idee che si hanno sulla malattia mentale, e sulla psicosi in particolare, hanno molto più a che fare con lo stigma sociale che non con le effettive conoscenze scientifiche

di Jonathan Foiles, psicoterapeuta e membro del Centro di Psicoanalisi di Chicago, lavora al Mt. Sinai Hospital (Chicago, Illinois) presso il Reparto di Psichiatria e Salute Mentale.

In psicologia e psicopatologia fortunatamente non ci sono diagnosi che equivalgano a delle condanne a morte. Ciò però non significa che tutte le diagnosi abbiano lo stesso impatto. Ansia e depressione ad esempio sono condizioni così diffuse che rivelare di doverci avere a che fare non è più così difficile. Altre condizioni tuttavia restano poco note, generano paura e sono percepite addirittura come pericolose: prima fra queste la schizofrenia. La depressione può ingrigire il mondo ma, a parte rare eccezioni, il mondo è percepito ancora allo stesso modo di chi non ne è affetto. La psicosi invece funziona in modo molto diverso e non tutti sanno bene di cosa si tratti.

Secondo il DSM-5, la schizofrenia emerge quasi sempre tra la fine dell’adolescenza e i 30 anni, in genere un po’ prima per i maschi e un po’ dopo per le femmine. Avere a che fare con i ragazzi nei primi anni della loro malattia è un lavoro molto difficile: non si può fare a meno di pensare alla vita relativamente spensierata che si dovrebbe avere alla loro età mentre queste persone affrontano un grave disagio. Eppure spesso la visione che si ha di queste malattie mentali è fortemente condizionata dallo stigma sociale.

Studi recenti hanno messo in discussione l’idea secondo cui la schizofrenia sia una condizione inevitabilmente destinata a peggiorare progressivamente. Come ha illustrato uno studio  longitudinale condotto dallo psicologo e ricercatore Patrick Corrigan (P.W. Corrigan, The Stigma Effect, Unintended Consequences of Mental Health Campaigns, 2018 Columbia University Press) la schizofrenia opera secondo una regola approssimativa: circa un terzo delle persone con diagnosi di schizofrenia sembra guarire dopo aver ricevuto cure intensive o un ricovero a breve termine, un altro terzo ha bisogno di essere seguita più a lungo termine – solitamente combinando farmaci e psicoterapia (v. articolo sull’importanza dell’alleanza terapeutica nel trattamento delle psicosi )- mentre solo il restante terzo rimane purtroppo sintomatico. Ad ogni modo solo l’11% dell’intera popolazione clinica dello studio mostra il modello stereotipato di disintegrazione psichica costante e progressiva.

Per comunicare una diagnosi di schizofrenia può essere qualche volta utile fare riferimento ad alcune persone che stanno affrontando con successo la stessa condizione ma certamente i singoli esempi alla fine non portano molto lontano. Allora cosa si può fare per aiutare sia coloro che devono affrontare la diagnosi che le persone in generale?

Innanzitutto iniziando col mettere in discussione alcune delle nostre idee preconcette. Come osserva Corrigan, dato il tasso di prevalenza della schizofrenia (0,8%), circa 80.000 persone con schizofrenia vivono a Chicago eppure gran parte di quelle persone non sono visibilmente sintomatiche, nel senso che in una grande area metropolitana incontriamo ogni giorno persone con schizofrenia senza accorgercene!

[Nell’area metropolitana di Milano le persone con schizofrenia sarebbero oltre 60 mila. NdT]

Corrigan esamina alcuni degli approcci più comuni per porre fine alla stigmatizzazione: lottare per i diritti di coloro che soffrono di malattie mentali, educare la gente comune su cosa sia realmente la schizofrenia ed infine avere dei concreti contatti con chi soffre di schizofrenia. L’ultima opzione è quella che, ovviamente e intuitivamente, può avere il maggior impatto. Ad esempio basti pensare che molte persone – soprattutto di una certa età – hanno cambiato la loro opinione sui matrimoni gay non a causa di una marcia di protesta o della lettura di un articolo su di un giornale (sebbene importanti) ma piuttosto conoscendo direttamente qualcuno che aveva a che fare con quel problema. Dissolvere lo stigma della malattia mentale dovrebbe procedere più o meno allo stesso modo.

L’argomentazione di Corrigan è certamente convincente ma si deve ammettere che quando si ha a che fare con la schizofrenia questo approccio può essere un po’ più complicato. Ed in effetti, anche per quanto riguarda i diritti dei gay, solo quando personaggi relativamente noti e importanti sono usciti allo scoperto, in molti si sono sentiti a loro agio seguendo il loro esempio. E comunque quelli che inizialmente si erano esposti per primi hanno subito discriminazioni e abusi maggiori rispetto a chi è venuto dopo. Corrigan però non predica bene e basta: nella sua battaglia contro lo stigma ha esposto molto coraggiosamente la storia della sua salute mentale ed è quindi assolutamente consapevole, poiché sperimentati in prima persona, dei pro e dei contro dell’essere “trasparenti” a riguardo.

Si spera che anche altri possano essere così coraggiosi da seguire l’esempio di Corrigan, Saks e altri. I problemi devono essere affrontati ovviamente anche a livello generale e politico ma si dovrebbe iniziare a farlo soprattutto a livello personale, nel piccolo, iniziando dalle parole che si usano ogni giorno al modo in cui ci si rapporta con la persona che parla da sola sull’autobus. Sono queste piccole sfumature, queste piccole interazioni, a trasmettere concretamente i propri valori alle persone vicine.

Tradotto e adattato dall’articolo originale <<Have we been getting schizophrenia wrong?>> di Jonathan Foiles.