Fenomenologia della depressione: l’esperienza del dolore

Luca Mazzotta

(Relazione presentata il 27 settembre 2008 al Congresso “Comprendere e curare la depressione” organizzato dal Centro di Aiuto Psicologico)

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce la depressione come un <<diffuso disturbo psichico, caratterizzato da tristezza, perdita di interesse o piacere, senso di colpa o bassa autostima, disturbi del sonno e dell’alimentazione, mancanza di energia e scarsa concentrazione. Questi problemi possono cronicizzarsi o divenire ricorrenti, danneggiando la capacità dell’individuo di affrontare la vita quotidiana. Se la depressione è lieve può essere trattata non ricorrendo a farmaci ma se è moderata o grave possono essere necessari trattamenti psicoterapeutici e farmacologici>>.

Sempre l’OMS rileva che la depressione è la principale causa di disabilità cronica nel mondo, in termini di anni vissuti in presenza del disturbo. Per quanto riguarda la mortalità precoce, la depressione è al quarto posto in termini di stima di anni totali di vita e si prevede che nel 2020 salirà al secondo posto in questa triste classifica.

Secondo il rapporto dell’Agenzia Italiana del Farmaco, nel 2007 gli psicofarmaci in Italia sono al terzo posto per quanto riguarda il consumo di dosi giornaliere, dopo i farmaci del sistema cardiovascolari e quelli gastrointestinali. Tra i sottogruppi relativi agli psicofarmaci, al primo posto vi sono gli antidepressivi (del tipo SSRI, molecole che inibiscono la ricaptazione della serotonina dagli spazi intersinaptici), il cui consumo, nel periodo 2000-2007 è pressoché triplicato, giungendo a 25 dosi giornaliere ogni 1000 abitanti (circa 1,4 milioni di dosi al giorno, 511 milioni di dosi all’anno).

Non c’è dubbio che il fenomeno della depressione sia sempre più evidente. Ma qual è il fenomeno interiore, di chi vive la depressione? Al di là dei criteri di classificazione, basati sulla presenza o assenza di un certo numero di sintomi,  è il racconto del paziente e soprattutto l’essere a contatto con lui, e con la sua sofferenza, la più efficace fonte di conoscenza.

La diagnosi ancorata alle funzioni conoscitive dei sentimenti consente di cogliere la persona nella sua trasparenza e nella sua profondità. Davanti ad una forma di disagio psichico nasce in noi, prima di ogni elaborazione razionale, l’“impressione”, o il sentimento. L’intuizione non deve del resto essere considerata come un “indovinare” o un “sospettare”: al contrario si tratta di un conoscere reale ed esperienziale. Si tratta di un tipo di conoscenza adeguata all’oggetto che vogliamo conoscere, che per sua specifica natura non può essere scomposto in parti o analizzato con strumenti tecnologici; se lo facessimo, questo oggetto perderebbe immediatamente il suo senso originario. Lo avremmo trasformato, nel migliore dei casi; nel peggiore lo avremmo distrutto. Sarebbe come voler studiare una bolla di sapone prendendola con delle tenaglie di acciaio, come amava raccontare un mio docente universitario. Se noi volessimo capire  cosa è un sorriso, e ci fermassimo a cogliere il tipo di movimenti dei muscoli facciali coinvolti, quanti muscoli devono muoversi e per quanto tempo (almeno tre, di cui due per almeno tre secondi), alla fine avremmo raggiunto un accordo circa il fatto che particolari movimenti dei muscoli sono chiamati sorriso, ma avremmo perso l’esperienza del sorriso.

Uno stato depressivo è un’esperienza soggettiva universale, precisando che l’ambito dell’esperienza non si esaurisce con quella che è la nostra coscienza. Al contrario: possiamo fare esperienza di una serie infinita di stati affettivi dei quali potremmo non essere affatto consapevoli. Ad ogni modo, quando nella vita di tutti i giorni sentiamo dire da qualcuno “sono depresso”, intuitivamente riteniamo di avere un’idea, anche se approssimativa, dello stato d’animo del nostro interlocutore. Ciò avviene perché probabilmente ognuno di noi ha, almeno qualche volta, sperimentato quel particolare senso di tristezza, vuoto, mancanza di energia, pessimismo cui il termine depressione si riferisce. Il termine stesso ci suggerisce il venir meno di una “pressione”, di una tensione, psichica ovviamente.  Chi è depresso sente fondamentalmente che c’è “qualcosa che non va”. E spesso non sa proprio cosa sia “a non andare”.

Dunque la consapevolezza della depressione ha a che fare con uno stato psichico sentito come egodistonico. A questo punto è necessario sgomberare subito il campo dal facile fraintendimento che qualunque stato psichico egodistonico sia anormale e patogeno. Certo la nostra società ci propone un’immagine a tutti i costi leggera, spensierata (nel vero senso di “senza pensiero”) e felice dell’esistenza. Ma è poi davvero così?

La febbre non è certo piacevole eppure ha una sua funzione all’interno dei meccanismi di risposta immunitaria. La febbre può salvarci la vita, ma a volte può causare dei danni molto gravi.

Anche un senso di tristezza o di infelicità può essere uno stato passeggero, una normale reazione ad un certo stato di cose, oppure una reazione psichica di una certa importanza e quindi potenzialmente grave e pericolosa. Proprio come la febbre, lo stato depressivo può essere più o meno profondo e può essere accompagnato o meno da altre manifestazioni.

A questo punto non si può non citare il celebre lavoro di Freud “Lutto e melanconia” che a distanza di un secolo, a mio avviso rappresenta ancora il miglior modo di accostarsi al tema. Egli sin da subito ci dà la possibilità di distinguere la reazione depressiva dalla depressione come condizione autonoma. Freud, quando si è occupato di malinconia, oggi diremmo di depressione, ha da un lato distinto questa dal lutto, e dall’altro ha contemporaneamente esteso alla malinconia  proprio l’aspetto fenomenologico del lutto.

Il lutto è invariabilmente la reazione alla perdita di una persona amata o di un’astrazione che ne ha preso il posto: la patria, la libertà, un ideale e così via.” La melanconia, invece, è “psichicamente caratterizzata da un profondo e doloroso scoramento, da un venir meno dell’interesse per il mondo esterno, dalla perdita della capacità di amare, dall’inibizione di fronte a qualsiasi attività e da un avvilimento del sentimento di sé che si esprime in auto rimproveri e autoingiurie e culmina nell’attesa delirante di una punizione” (Freud, 1917).

Dunque quando perdiamo una persona cara, il mondo si impoverisce di un aspetto importante per noi. Questo ci addolora, dobbiamo rinunciare a qualcosa cui eravamo legati. Questa rinuncia non è né semplice né immediata. La de-pressione, il calo della tensione psichica, ci permette di raccogliere le energie: ci aspetta infatti il compito di rimettere ordine nel nostro mondo interno in conseguenza di un cambiamento avvenuto nel modo esterno. Questo è un lavoro necessario, poiché abbiamo bisogno di ridefinire i nostri interessi, le nostre attività, i nostri investimenti affettivi, sapendo che al posto di quella persona cara ora c’è un vuoto, uno strappo, una lacerazione che, con il tempo, si trasformerà in nostalgia. Se non avessimo delle energie da dedicare a questo lavoro, al lavoro del lutto, ci comporteremmo come se non fosse successo nulla, andando incontro così, ogni volta che si cercasse l’oggetto la cui perdita viene negata, ad una delusione, ad un dolore psichico che tenderebbe a persistere all’infinito. Il lavoro del lutto, seppur penoso, talvolta straziante, è utile e necessario per la guarigione della ferita psichica causata dalla perdita di un oggetto reale.

Ma c’è una condizione psichica che ha l’aspetto fenomenologico del lutto, sebbene non sia direttamente collegata ad un lutto reale. Certamente un lutto reale può risvegliare o esasperare un preesistente stato depressivo, ma lo stato depressivo in sé non riguarda una perdita irrimediabile di qualcosa nel mondo esterno. Il dolore è simile a quello del lutto ma il vissuto non è di un mondo esterno che si è impoverito: l’impoverimento riguarda il proprio mondo interno, e la depressione è una reazione, una strategia relativa a questo impoverimento. Si vive allora un generale abbassamento della tensione psichica, cioè una inibizione della capacità di “tendere verso” qualcosa, di fare progetti e di perseguirli. L’interesse verso le cose, le attività, le persone, verso il Sé, viene diminuito, se non azzerato. Questo stato psichico non serve più a riorganizzare, come nel lutto, il proprio mondo interno, ma ad evitare di confrontare il proprio mondo interno con il mondo esterno, ad evitare di vivere e di amare. Serve a difendersi dalle inevitabili delusioni. Tutto è attenuato, lontano, indifferente o irraggiungibile.

Le gradazioni ovviamente sono molte: ci si può sentire inspiegabilmente annoiati, pigri, demoralizzati, apatici, inspiegabilmente tristi, cupi, pessimisti, disperati. Vi è una incapacità, una impossibilità direi, di trovare conforto in attività che dovrebbero essere piacevoli. Anzi: spesso l’essere coinvolti in attività piacevoli mette ancor più in evidenza l’incapacità di goderne, aumentando a dismisura la sofferenza ed il disagio psichico.

Le modificazioni maggiori ovviamente riguardano il proprio mondo affettivo e motivazionale. A ragione, la depressione viene vista come un disturbo della motivazione. Ma la depressione influenza anche le nostre percezioni, non solo quelle strettamente sensoriali ma anche quelle affettive. E’ come un velo nero posato sul proprio volto, come in un bel romanzo autobiografico di Rick Moody. Un velo che, se da un lato copre e difende dalla vergogna o dalla colpa di un Sé disprezzato, dall’altro attenua e modifica le percezioni del mondo esterno. Un velo nero che attenua le differenze e rende cupo il mondo che osserviamo.

Quando il dolore supera una determinata soglia, il paziente avverte la propria sofferenza, sente che c’è qualcosa che non va, anche se spesso non saprebbe dire esattamente cosa c’è che non va. Spesso le frasi dei familiari sono del tipo: “Hai tutto quello che chiunque vorrebbe avere e non sei felice”. In questi casi l’esperienza è evidentemente avvertita come egodistonica ed il paziente, se riesce ad avere la meglio sul comprensibile senso di vergogna e sul timore di potersi sentire umiliato, arriva a chiedere aiuto. Anche nella relazione terapeutica è possibile avvertire la presenza del “velo nero” di cui parlavo in precedenza: spesso la convinzione del paziente è che il terapeuta perderebbe ogni interesse verso di lui se non avesse quel “velo” e facesse realmente vedere cosa c’è dietro, chi è, cioè se il terapeuta arrivasse a conoscerlo veramente. Il transfert può essere caratterizzato dall’idealizzazione del terapeuta, che ben esprime il contrasto con la  scarsa considerazione di sé. Altre volte il transfert può rappresentare l’esternalizzazione sul terapeuta delle proprie autoaccuse.

Il controtransfert di conseguenza può oscillare da un affetto benevolo a fantasie di onnipotenza, dal sentirsi demoralizzati, incompetenti e privi di speranza, al provare sentimenti critici e colpevolizzanti.

Ma non vi è solo l’esperienza conscia: vi sono degli stati psichici in cui non si ha alcuna consapevolezza del proprio disagio. In questi casi la percezione che “qualcosa non va”’ non è più rivolta alla propria vita affettiva ma alle corrispondenti modificazioni deliranti della realtà esterna: il timore di una malattia somatica in agguato, un vissuto di imminente catastrofe finanziaria, la sensazione che gli altri siano cambiati o che le cose attorno siano cambiati. Fino alle più profonde modificazioni psicotiche della coscienza dell’Io, e del proprio “essere nel mondo”. Il proprio corpo è sentito come l’urna contenente le proprie ceneri psichiche, il tedio porta ad un inesorabile rallentamento del tempo, che arriva fino a fermarsi. Nessun futuro allora è più possibile ed il passato inizia a dilagare, divorando in sé anche il presente. Lo spazio si restringe, diventando angusto e claustrofobico, impedendo ogni iniziativa ed ogni movimento, come può essere una stanza troppo stretta. Ma può anche diventare uno spazio immenso e disgregato, dove non c’è alcuna possibilità di raggiungere alcunché. Sono tutti troppo distanti e irraggiungibili ed il paziente è fermo, al centro di una vasta enormità. Vuota.

Siamo quindi man mano “sprofondati” nelle forme più profonde della depressione. Proviamo ad emergerne, dotando questa esperienza di un senso, di un significato. L’esperienza depressiva quindi può andare dall’universale esperienza della tristezza e del lutto all’esperienza radicale della depressione psicotica. Una esperienza questa che, sebbene diversa dalla nostra quotidianità, rappresenta comunque una possibilità della condizione umana, con la quale siamo costretti a confrontarci in ogni momento. Dunque è una condizione “altra” e non “aliena”, una condizione dotata di senso, del senso che si può attribuire al dolore come elemento essenziale per l’esistenza della vita psichica.

Ora che ne siamo emersi, possiamo fare un passo avanti e concludere che, nel caso del lutto, lo stato affettivo negativo è funzionale, adattivo, e ci spinge a riorganizzare il nostro mondo interno. Siamo costretti  separarci da qualcosa e a individuarci nuovamente, e questo accade più e più volte nel corso della nostra vita. Nel caso della depressione invece, abbiamo una capitolazione davanti al compito evolutivo che ci attende (la perdita di una persona cara, ma anche la perdita della fanciullezza, della giovinezza), un tirarci indietro, un preferire la sicurezza dell’immobilità alla sfida evolutiva. Ma anche questo meccanismo adattivo, tutto sommato, va guardato con tolleranza e comprensione. È una possibilità della condizione umana, che va compresa ed accolta, per eventualmente poter scegliere di superarla ed abbandonata.

 

Riferimenti bibliografici

Agenzia Italiana del Farmaco – Rapporto Osmed (2007)

E. Borgna – I conflitti del conoscere (1988); Feltrinelli

E. Borgna – Malinconia (1992); Feltrinelli

S. Freud – Lutto e melanconia (1917); Boringhieri

N. McWilliams – La diagnosi psicoanalitica (1994); Astrolabio

R. Moody – Il velo nero (2002); Bompiani

World Health Organization – http://www.who.int