L’American Heart Association (AHA, l’associazione dei cardiologi americani) ha qualche tempo fa incaricato un Comitato di ricercatori e clinici di chiarire se la depressione possa essere un fattore di rischio primario per malattie cardiovascolari al pari di colesterolo, fumo, diabete e obesità.

Il comitato dopo aver passato in rassegna le più importanti pubblicazioni scientifiche disponibili (53 studi e 4 meta-analisi) ha concluso (con una pubblicazione del febbraio scorso) in modo inequivocabile che la depressione è un  fattore di rischio per accertate conseguenze mediche avverse (valutate in termini di mortalità) in pazienti con sindrome coronarica acuta (infarto del miocardio e angina instabile): la presenza di un quadro depressivo aumenterebbe la mortalità in questi eventi di più di 2 volte (http://circ.ahajournals.org/content/129/12/1350).

Il Comitato ha inoltre raccomandato all’American Heart Association di considerare la depressione come fattore di rischio anche nella genesi delle malattie cardiache su base arterosclerotica. Non solo: il Comitato ha anche raccomandato di approfondire il ruolo dell’ansia e quale sia il trattamento migliore della depressione e dell’ansia in pazienti cardiopatici.

Sebbene fosse nota da tempo l’influenza negativa di un quadro depressivo nella prognosi di un paziente infartuato (importanti studi circolavano da molti anni), fino a questo studio commissionato dall’AHA non era mai stata ufficialmente riconosciuta dalla comunità cardiologica internazionale, con conseguente sottovalutazione della dimensione psicologica.

Fino ad ora, il cardiologo attento a seguire le linee guida ufficiali, teneva in considerazione altri fattori di rischio (colesterolo, fumo, obesità, pressione, diabete): ora terrà in considerazione anche l’umore del suo paziente.

Si pensi che nel 2004 un ampio studio internazionale aveva preso in esame oltre 15.000 casi di infarto acuto, confrontandoli con altrettanti controlli in oltre 50 paesi di tutti i continenti: era risultato che un livello elevato di stress psicologico nell’anno che precedeva l’evento cardiaco, compariva al terzo posto come importanza di fattore di rischio, subito dopo colesterolo e fumo e addirittura prima del diabete.