Depressione: meccanismi psicodinamici ed evolutivi

I processi evolutivi che hanno portato a questi endofenotipi (cioè dei fenotipi risultanti dall’interazione complessa tra genotipo e ambiente) riguardanti gli aspetti emotivi non coincidono con le esplicite rappresentazioni corticali, né con i prodotti finali esperienziali. In termini più semplici, un bambino in preda all’angoscia da separazione non penserà consapevolmente: “la separazione dalla mia mamma è una cosa cattiva perché mette a rischio la mia sopravvivenza e dunque la mia capacità riproduttiva.” Sebbene quello che l’individuo sperimenta sia funzionale agli interessi della specie, l’esperienza soggettiva individuale ha una manifestazione sua propria e può essere qualcosa del genere: “la separazione dalla mia mamma è una cosa cattiva; voglio la mia mamma!” oppure “la separazione dalla mia mamma è una cosa cattiva… odio questa cosa… odio la mia mamma!”.

Gli individui sono motivati innanzitutto da sentimenti soggettivi, quindi secondariamente da pensieri soggettivi; non sono mai motivati dal modo oggettivo di funzionamento, e questo è valido persino nelle situazioni in cui il funzionamento oggettivo spiega e causa i sentimenti ed i pensieri in questione.

Un esempio più complesso può essere il seguente: il meccanismo “oggettivo” della fase di sconforto nella risposta alla separazione sembra rappresentare la chiusura della fase di “protesta”, associata al comportamento di ricerca. Questa fase di sconforto evita l’esaurimento metabolico, il rischio di attrarre predatori ed il rischio di allontanarsi troppo. A livello neurochimico questa “chiusura” della fase di protesta è probabilmente mediata dalla dinorfina che “spegne” il sistema dopaminergico, cioè in termini comportamentali un comportamento di ritiro sostituisce il comportamento di ricerca. In termini di “teoria dell’apprendimento” succede che a questo punto continuare la ricerca di ricompensa inizia a causare risposte di punizione. Questo provoca inoltre una frustrazione dei desideri di ricerca, provocando reazioni di rabbia che devono a loro volta essere inibite o addirittura “capovolte”.

Dal punto di vista soggettivo questo meccanismo si riflette nel fatto che lo sconforto prende il posto della speranza, portando all’anedonia (l’incapacità di provare e ricercare il piacere) oppure, peggio ancora, la speranza lascia il posto ad un continuo attacco interiore verso il Sé. Ciò che avviene dal punto di vista soggettivo, dunque, è molto differente dal meccanismo oggettivo: “termina la ricerca per permettere la sopravvivenza” (meccanismo oggettivo) diventa “odio quella parte di me che ha bisogno di lei e spera che lei tornerà” (esperienza soggettiva). In qualche modo la cosiddetta reazione terapeutica negativa ha molto a che fare con questo tipo di funzionamento che tende ad interrompere la ricerca, a sostituire sentimenti di speranza con sentimenti di rabbia e odio.

Il fatto che un simile funzionamento potrebbe portare ad un attacco verso un oggetto frustrante internalizzato non trova una rappresentazione a livello neocorticale: il funzionamento oggettivo che spiega (e in definitiva causa) queste situazioni è il vantaggio, in termini di probabilità di sopravvivenza, di un “viraggio” dalla protesta alla “disperazione” dopo un certo lasso di tempo. L’esperienza soggettiva di questo “viraggio”, la diminuzione dell’autostima o peggio ancora l’odio verso di sé, non è assolutamente a conoscenza del meccanismo sottostante.

Quindi: perché la depressione è qualcosa di profondamente doloroso?

Sulla base delle ipotesi fatte sinora, per due motivi molto importanti:

  1. a) innanzitutto per incoraggiare a formare legami di attaccamento, in particolare alle figure primarie di accudimento, ma anche ai nostri partner, ai nostri figli, ai gruppi sociali e simili;
  2. b) in secondo luogo per scoraggiare dal continuare a cercare un ricongiungimento con queste figure nel caso in cui i tentativi si protraggano vanamente oltre un certo lasso di tempo.

Il fatto che questi sentimenti, in alcuni individui, possano essere troppo facilmente provocati o che possano essere troppo difficili da superare dipende anche dal fatto che una particolare predisposizione genetica abbia in qualche modo interagito considerevolmente con condizioni facilitanti il disturbo e troppo poco con condizioni protettive.

Poiché esistono strutture cerebrali che generano tali sentimenti, sembra ragionevole ipotizzare che l’innesco della depressione non abbia molto a che fare con i meccanismi di cui si sono occupati la maggior parte dei ricercatori psichiatrici negli ultimi tre decenni ma riguardi quel meccanismo cerebrale, conservatosi nel corso dell’evoluzione, coinvolto nella transizione dalla “protesta” allo “sconforto” nei riguardi delle separazioni. In altri termini sembra ragionevole ipotizzare che le fondamenta cerebrali della depressione ruotino attorno al processo per mezzo del quale le manifestazioni dell’angoscia di separazione vengono fatte cessare (verosimilmente per mezzo dell’azione di kappa-oppioidi come la dinorfina) inducendo l’animale a desistere.

Proprio questi processi sarebbero il posto più ovvio dove iniziare a cercare se solo si considerasse la fenomenologia della depressione – e non le manifestazioni che semplicemente correlano con la depressione – come punto di partenza. Invece sembra che continui ad esservi un continuo e profondo pregiudizio verso il riconoscimento sia della natura soggettiva della consapevolezza che del suo ruolo causale nei processi e nella fisiologia cerebrali. Questo pregiudizio è molto negativo in quanto la consapevolezza soggettiva, che piaccia o no, è qualcosa che esiste (e di cui ognuno fa continuamente esperienza) e soprattutto esiste in quanto esito evolutivo. È pertanto un elemento centrale del modo di funzionare del cervello e continuare ad ignorarlo non favorirà gli sviluppi futuri della ricerca neuroscientifica, farmacologica e psicoterapeutica.

Parte prima: la prospettiva di Mark Solms e la neuro-psicoanalisi

Parte seconda: Dove cercare? Dalla fenomenologia ai sistemi neurofisiologici