Il bullismo è tra le tante forme di aggressività quella che ha preso piede nelle scuole e nei centri di aggregazione giovanile. Il termine è una traduzione letterale dell’inglese bullying, usato comunemente nella letteratura internazionale. Pioniere degli studi sul bullismo è stato lo psicologo norvegese Dan Olweus che all’inizio degli anni ’70, sulla scia di un grave fatto di cronaca, ha iniziato a occuparsi in maniera sistematica del fenomeno. A lui si deve la prima definizione: uno studente è oggetto di azioni di bullismo, ovvero è prevaricato o di vittimizzato, quando viene esposto ripetutamente nel corso del tempo alle azioni offensive messe in atto da parte di uno o di più coetanei. Alla radice del comportamento del bullo c’è quasi sempre la volontà di intimidire e dominare, un abuso di potere che si manifesta con modalità diverse. Quella fisica, nella quale si aggredisce la vittima con pugni e calci oppure (o anche) si cerca di rovinarne gli effetti personali. Quella verbale dove si deride, si insulta, si prende in giro ripetutamente. Infine, c’è anche una modalità indiretta (registrata più di frequente tra le ragazze): l’aggressore diffonde pettegolezzi fastidiosi, piccole calunnie, escludendo di fatto la vittima dai gruppi di aggregazione. Oggi poi prende sempre più piede la forma del cyberbullismo, forma di violenza esercitata tramite internet e i social network. I bulli che non modificano le loro modalità di interazione saranno, da grandi, persone a forte rischio di comportamenti antisociali o devianti. Le vittime spesso perdono autostima e si colpevolizzano, reazioni che comportano una perdita di concentrazione e inficiano il rendimento scolastico. In alcuni casi si hanno manifestazioni somatiche che segnalano un disagio: mal di testa, mal di stomaco, attacchi di ansia, incubi. Tutti questi disturbi possono avere conseguenze psicologiche anche in età adulta e necessitare di un intervento psicoterapeutico. Per sottrarsi ai comportamenti del bullo, o dei bulli, le vittime arrivano a lasciare la scuola, a non uscire più di casa e, in casi estremi, anche al suicidio: come accadde, per citare un caso, a 3 ragazzini della stessa scuola media inferiore di Ragusa alcuni anni fa. E fu proprio un caso di triplice suicidio a spingere il governo norvegese incaricare Olweus di studiare il fenomeno. Negli anni ‘80 l’analisi e i provvedimenti per combattere il bullismo arrivano quindi negli altri paesi scandinavi, poi negli Stati Uniti, in Canada, Giappone, Olanda e Regno Unito, e infine anche in Italia. Uno studio piuttosto importante è <<Bullismo, bullismi. Le prepotenze in adolescenza dall’analisi dei casi agli strumenti di intervento>> pubblicato nel 2005 da Franco Angeli in cui Elena Buccoliero e Marco Maggi hanno analizzato il comportamento dei ragazzi di sei scuole medie superiori sparse su tutto il territorio nazionale. Il 15 per cento degli intervistati ha affermato di essere vittima di bulli, 11 su 100 hanno dichiarato di essere dei bulli e il 46 per cento di avere assistito come testimoni ad atti di bullismo. L’aggressore colpisce solitamente nel tragitto tra casa e ufficio scolastico e nei bagni di scuola, ma il luogo principale delle aggressioni è dei più insospettabili: la classe. Cioè sotto gli occhi più o meno consapevoli degli adulti…