Un altro psicoanalista specialista dei primi anni dell’infanzia, René Spitz, ha apportato ai problemi del processo di sviluppo un contributo che chiarisce considerevolmente l’argomento. Nel 1910, René Spitz, giovane medico di meno di venticinque anni, lasciò Budapest, la sua città natale, per trasferirsi a Vienna, dove intendeva studiare psicoanalisi sottoponendosi lui stesso ad analisi. Il primo mentore del giovane, Sandor Ferenczi, pregò Freud di analizzarlo. Spitz fu dunque uno dei primi studenti, se non il primo, a fare un’analisi didattica (termine estremamente infelice), cioè un’analisi personale necessaria alla formazione psicoanalitica.

Spitz era un eccellente osservatore sperimentale: ha spesso cronometrato la durata delle grida che lancia il neonato dopo il parto e ha scoperto che queste grida cessano dopo qualche secondo se si lascia il bambino da solo. Egli ha affermato che il neonato ha degli organi sensoriali di recezione molto poco sviluppati e dunque non è affatto provato che egli provi delle emozioni, così come le si intende normalmente, durante i suoi primi giorni di vita. Tuttavia il settimo o l’ottavo giorno il neonato comincia a reagire e a presentare delle  strutture di comportamento ancora molto deboli, ma precise; sebbene siano puramente fisiche, queste manifestazioni hanno un’importanza psicologica. In questo stadio, quando si mette il bambino fra le braccia della madre per la poppata, egli volge il capo verso il seno, facendo udire un leggero schiocco, le sue labbra cercano di afferrare, le sue mani premono il seno. Spitz ha studiato  e fotografato una reazione familiare: il neonato mette il naso sulla mammella, reazione costituita da una serie di movimenti coordinati che si chiama rooting: ciò avviene ogni volta che si cambia di posizione il neonato e viene stimolato l’apparato vestibolare del suo orecchio. Il neonato non ha nessun bisogno di acquisire questa reazione che è innata e precede qualsiasi attività mentale: cerca semplicemente il cibo, a tastoni. Tuttavia si produce contemporaneamente qualche altra cosa, giacché mentre il bambino succhia il latte, i suoi occhi si volgono verso il viso della madre.

Spitz ha mostrato come, a partire dal momento in cui il senso visivo del bambino si sviluppa, durante la poppata egli non fissa lo sguardo sui seni, ma verso il  viso materno. E la percezione ha inizio quando il bambino comincia a distinguere la sensazione di contatto ottenuta appoggiando il viso ai seni, dalla sensazione che prova a distanza vedendo il volto della madre. Il neonato, durante i primi giorni, non prova alcuna sensazione “a distanza”: ad esempio il suono è una sensazione di contatto, una vibrazione.

Al momento della poppata il neonato non perde mai di vista il volto della madre, sia quando perde il contatto fisico con il seno che quando stabilisce questo contatto. La ripetizione di questa esperienza trasforma a poco a poco le sensazioni in percezioni. Spitz ha definito “dialogo originario” lo scambio suscitato tra madre e bambino dalla reazione di rooting e da altre ulteriori reazioni, come il “sorriso” che compare verso il secondo o terzo mese. Questo dialogo risulta essere altrettanto necessario, per la vita, del cibo. Parallelamente ad alcuni suoi colleghi Spitz ha studiato una sindrome  mortale che colpisce i neonati: l’ospitalismo. Durante la seconda guerra mondiale questa malattia ha fatto strage tra gli orfani in tenera età, che infermiere occupatissime alimentavano precipitosamente o che lasciavano nelle loro culle con una bottiglia fissata ad un supporto. Per il resto erano bambini ben curati. Tuttavia alcuni di loro divennero completamente apatici: qualsiasi tentativo di provocare una reazione da parte loro non aveva altro effetto che far emettere loro gridi acuti, privi di significato. L’ospitalismo è una malattia irreversibile, che ha sempre un esito fatale.

In termini psicoanalitici dell’epoca di Spitz l’ospitalismo si spiegava con il fenomeno dell’aggressività, che è onnipresente. L’aggressività può essere regolata o meno, ed una delle funzioni della psiche è di mettere a freno l’aggressività, adattarla, renderla utilizzabile, invece di lasciarla sfociare nell’autodistruttività del soggetto, come nella depressione o semplicemente nelle crisi di collera. Uno dei ruoli più decisivi del dialogo originario consiste nel regolare l’aggressività: senza di esso diventerebbe immancabilmente distruttiva.

Il dialogo originario, tuttavia, può anche dar luogo a diversi insuccessi. Può ad esempio rendersi strumento di una protezione materna eccessiva, divenire appunto lo strumento di una dose di stimolazione emotiva eccessiva. Oppure, come Spitz ha osservato successivamente, in un ambiente familiare nel quale vivono troppe persone, dove i telefoni, la televisione, i visitatori non cessano di interrompere il ciclo appetito-consumazione, il dialogo rischia di “deragliare”. Questo “deragliamento” porta alla “depressione verso l’esterno”, per esempio alla tendenza a commettere delitti o alla perversione. I lavori di Spitz in questo campo hanno creato nuove relazioni tra psicoanalisi e problemi sociali, come la costruzione di città ed il controllo demografico. Spitz ha esposto le sue ricerche nel suo famosissimo libro: Il primo anno di vita.

Spitz ha utilizzato frequentemente le videoriprese per studiare l’angoscia che, nei bambini, si manifesta con le lacrime ed una reazione di paura. Alcune delle sequenze più interessanti che ha girato mostrano un bambino di otto mesi, lasciato solo con una bambola che imitava in modo molto realistico una creatura vivente. Il bambino striscia verso la bambola dalla quale sembra aspettarsi qualche cosa; si ferma, guarda la bambola con aria diffidente, la spinge, poi scoppia improvvisamente in lacrime. La causa di questa angoscia deriva dal fatto che il bambino si aspetta un dialogo: ha una reazione di terrore quando la bambola non risponde. Spitz vedeva nel timore universale dei cadaveri una conseguenza della nostra paura di essere presi in trappola e schiacciati sotto il peso dell’aggressività. Il dialogo originario educherebbe la nostra discriminazione tra ciò che è vivente e ciò che non lo è: la svilupperebbe così bene che siamo in grado di distinguere senza sbagliarci la fotografia di un bambino vero da quella di una bambola realistica.

René Spitz:

– Il primo anno di vita, Milano, 2009, Giunti Editore